PaesedelleStreghe

Contus

Una tragica commedia di Streghe

di Davide


VI

La casa di Giuannica Marajani era una vera e propria catapecchia. Donna Maria quando vi entrò, preceduta da Lucia Musinu, storse il muso nel sentire l’aria gravida di lezzo.
Il vecchio edificio era composto da un unico stanzone, le cui pareti scrostate erano d’un candido colore azzurro, macchiato dagli aloni del fumo e dell’umidità. Il cammino, posto all’angolo più lontano, sulla sinistra rispetto all’ingresso, presentava un ceppo quasi spento, le cui braci scintillavano sonnolenti. Sulla destra, invece, un letto di paglia, coperto con alcune coperte di lana consumata dalle tarme, suggeriva un ben misero giaciglio. Al centro, v’era infine un grossolano tavolo di legno con sopra alcune stoviglie sporche, indicanti i resti di una frugale cena a base di pane e formaggio.
Nel complesso, la decrepita dimora rispecchiava l’estrema indigenza di chi l’abitava, la quale, tuttavia, pareva infischiarsene. Infatti, Giuannica, tossendo come una tisica, prese pesantemente due sedie semisfondate e le offrì malamente alle due donne. E mentre lo faceva, tra una scatarrata e l’altra, ridacchiava lugubremente. “Allora, siete venute per sapere chi ha fatto lo sconcio alla signorinetta dei Dettori,” disse con aria sarcastica.
Donna Maria arrossì. “Vorrei, zia Giuannica, che non si parlasse così di… di mia figlia. Caterina è una brava ragazza…”
La vegliarda mosse la mano tremolante, come per dire di lasciar perdere. “Oh, lo so, lo so…” e rise di gusto, mostrando i pochi denti marci. “Ma farò in modo di aiutarvi a scoprire chi è il colpevole… Per farlo, però, devo compiere un incantesimo, e mi serve un vostro capello, Donna Maria…”
Quando Giuannica Marajani si avvicinò, strappando dalla testa della matrona un filo sottile, Donna Maria sussultò con gli occhi visibilmente spiratati e pieni di terrore. Un incantesimo? Ma allora tutta quella recita non era scena, esclamò tra se. Quella donna era davvero una strega. Si girò verso Lucia, che osservava attenta l’anziana donna, la quale, allontanatasi da loro, s’era chinata nelle ante basse di una malandata credenza, prelevandovi delle strane boccette di terracotta. Le diede un colpetto nel grosso fianco per ridestarla.
La serva fece una smorfia di dolore e si girò verso la padrona, guardandola storta. “Oh sa meri,” disse, sussurrando, “che c’è?”
“Ho paura, Lucia mia,” rispose Donna Maria con voce flebile e con il viso visibilmente intimorito, mentre stringeva il braccio della serva. “Non è che questa ci trasformi in gatti neri e ci renda sue schiave?”
La vecchia megera pareva avesse sentito. Alzandosi stancamente dalla credenza e posando sul tavolo quello che aveva preso, disse: “Nulla di tutto questo.” Donna Maria sobbalzò dalla sedia. “Faccio solo quello che mi ha chiesto Lucia Musinu,” e rise ancora, intercalando con secchi colpi di tosse tisica.
Dopo diversi e misteriosi preparativi, nei quali erano state pronunciate strane litanie, Giuannica Marajani si voltò verso le due donne in attesa. “Bene, ora dovete mettervi in nell’angolo della stanza,” e indicò il lato più estremo, opposto a quello dove era posizionato il camino; quello vicino al quale c’era il giaciglio della strega. “Rimanete lì, in silenzio, mentre io apro la finestra.”
Le due donne si sistemarono nell’angolo, e rimasero a osservare quello che faceva la vecchia, la quale, dopo essere uscita nella piazzola, rientrò con una gabbia contenente un corvo nero. La gabbia venne posata al centro del tavolo, tra quattro candele accese.
Giuannica Marajani l’aprì, e il corvo uscì lentamente fuori, attratto dallo strano canto della strega. Questa lo prese, legandovi nella zampa sinistra il capello strappato dal capo della moglie di Don Dettori.
Intanto, Donna Maria, cerea, osservando quello strano rito, tremava come una foglia, pentendosi cento volte di aver accettato la proposta della serva, la quale, invece, pareva assai a suo agio nell’ambiente malefico.
“Bene, bene,” disse a quel punto la vecchia strega, tutta soddisfatta. “Ora il mio corvetto, Marixedda, andrà per Villacidro e si poserà nella casa dello sconcio… E la luce della luna è così alta che da qui potremo vederla!” Con quelle parole, rise, mentre si avvicinava alla finestra e lanciava il nero volatile nel cielo notturno. “Vai, figlia mia… Vai!”
Sotto la finestra aperta, Don Raffaele e Ziu Basiliu, ansanti per la salita, rimasero impietriti nell'osservare il malefico voltatile che, sbucato dalla topaia ove viveva Giuannica Marajani, andò a volteggiare verso il campanile di Santa Barbara, roteando e gracchiando come in preda a un delirio famelico. Era chiaro che il corvo non poteva che essere Donna Maria. Avevano fatto in tempo infatti a udire Giuannica Marajani chiamarlo con il nome della moglie di Dettori; peggio, con il vezzeggiativo che lui solitamente le usava.
Agghiacciato, Ziu Basiliu tirò Don Raffaele per la giacca. “Andiamo via,” disse, sussurrando e tremante. “Oh su meri, vi prego e vi supplico, andiamo subito via di qui! Se quelle coghe ci scoprono, ora che la luna è alta e che la loro maledetta magia è forte, siamo finiti: ci trasformeranno in grossi topi e finiremo in pasto ai gatti!”
Don Raffaele, istupidito, guardò il vecchio pastore e annuì. Era disperato. La moglie era stata trasformata in un corvaccio nero, grazie alle due streghe: la serva traditrice e quella vecchia decrepita di Giuannica Marajani.
Mentre lo pensava, sconcertato, venne trascinato via dal pastore ubriacone. Correndo veloci, i due uomini ridiscesero i viottoli tetri e scuri della parte alta di Villacidro, superando case sprofondate nel sonno, piccole fontane che gorgogliavano e tigli che ondeggiavano al soffiare del vento. In poco tempo, madidi di sudore, si ritrovarono in viale Don Bosco che ridiscesero fino a piazza Zampillo.
Intanto, Giuannica Marajani, dopo aver osservato a lungo il suo volatile, voltandosi indietro, fissò le due donne e disse tutta concitata e divertita: “Venite a vedere. Guardate, guardate,” e mentre lo diceva, rideva. “Il mio corvetto ha trovato ciò che cercate!”
Le due donne si mossero; Donna Maria come un sasso. Si avvicinarono alla finestra, e la vecchia megera, con le dita tremule e scure, pure alla pallida luce lunare, indicò un tetto ben visibile anche a quella distanza. “Guardate, quella è la dimora del seduttore!” gracchiò soddisfatta.
“Lucia mia!” singhiozzò Donna Maria, portandosi la mano in bocca. “Ma quella… Quella…”
Lucia Musinu annuì, fredda. “Già, quella è la casa di Gioacchino Murgia, il dottore! Ora sappiamo!”

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