PaesedelleStreghe

Contus

Una tragica commedia di Streghe

di Davide

 

Prologo

L’autunno timidamente cominciava a vestire dei suoi colori il paesaggio circostante Villacidro. Il piccolo centro, abbarbicato fra le due vette che sovrastavano il Campidano, Monte Omo e Monte Cuccureddu, ammiccava con le sue casupole di fango e paglia, dai tetti di tegole di terracotta rossa. Il campanile medievale di Santa Barbara, che dominava imperioso sulle povere abitazioni, rintoccava l’ora con le sue campane di bronzo, qualche anno prima donate alla piccola parrocchia dal Vescovo in persona.
Villacidro era davvero un bel paesello. Composto da poco più di mille abitanti, costituiva un forte richiamo per i paesi circostanti. I suoi ricchi orti di ciliegi e aranci e i suoi uliveti producevano quanto di meglio quello scorcio di Sardegna sud occidentale potesse offrire allora. E tuttavia, il piccolo centro non viveva solo d'agricoltura: sulle sue montagne, oltre il Leni, e su quelle a nord, verso Monte Margiani, i pastori villacidresi portavano le loro capre al pascolo, fra arbusti di lentischio e lecci secolari; e a est, oltre le ondulate colline che cominciavano a divenire pianura, le vacche, i buoi e le greggi di pecore, dominavano il paesaggio, alternandosi a campi di grano e distese di uliveti e mandorli, salvo qualche sporadica intromissione di sughereti che, incrinati e contorti dal vento di maestrale, erano stati un tempo gli unici dominatori della flora circostante.
I villacidresi amavano il loro paese a imbuto. In una posizione sovrastante, era un intrico di viottoli sterrati e stradine di pietra che si arrampicavano nei pendii circostanti, per perdersi nei sentieri, tra fitti boschi di lecci rigogliosi che regnavano sulle loro addolcite pareti; oppure, laddove il collo dell’imbuto si stringeva, sfumavano verso l’interno, nella ricca boscaglia di Castangias, ove sgorgava una piccola sorgente che, divenendo un piccolo fiumiciattolo (il rio Fluminera), tagliava in due il piccolo centro pedemontano.
La piazza di Santa Barbara era il centro del paese. A ridosso dell’imponente chiesa medievale e delle due chiesette commemorative dedicate alle Anime e alla Madonna del Rosario, v’era una piccola piazzola assai trafficata dal via vai quotidiano di donne che, piegate dalla fatica del bucato, tornavano dal Lavatoio con le ceste della biancheria sul capo, e di uomini che, altrettanto stanchi e logori per la dura giornata di lavoro, provenivano dalle campagne circostanti, sognando un ceppo e una cena calda.
Oltre la piccola piazza, costruita con fitti mattoncini rettangolari, e di fianco alla chiesa delle Anime e al Montegranatico, si apriva un altro ampio rondò: piazza Zampillo, la quale, tra le verdi fronde di imponenti alberi di tiglio, dominava lo scarno paesaggio con la sua fontana circolare e le sue panchine di legno ingrossato dagli acquazzoni invernali. Punto di incontro, in quella stagione tardo estiva, di vecchi e giovani, era circondata da consumati edifici di pietra e fango e dal piccolo rio Fluminera che separava la piazza dalla via Roma, la quale saliva, prima di proseguire più giù verso piazza Funtanedda, sulla piazza Frontera, dalle cui fitte scalinate si accedeva al vecchio convento dei mercedari, divenuto poi il Municipio.
Ma è proprio andando oltre piazza Frontera, scendendo verso piazza Funtanedda, verso la periferia estrema di Villacidro, dove le case si diradavano, alternandosi sempre più frequentemente all’aperta campagna, agli orti di aranci e di ciliegi e ai non più infrequenti uliveti, che inizia la curiosa storia che vede protagonista una delle famiglie più in vista e benestanti del paese: i Dettori.

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