La dimora dei Dettori, costruita cinquant’anni prima da Don Raimondo
Dettori, ricco notabile cagliaritano che si era innamorato del piccolo paese
alle pendici della catena del Linas, era una casa padronale di insolita bellezza.
Sita oltre piazza Funtanedda, verso la zona chiamata 'De S’Asteria',
per via della presenza di un edificio adibito a rifugio e fermata dei viandanti,
era circondata da ampi giardini e folti aranceti, tutti di proprietà
della benestante famiglia.
Il tutto accadde in un giorno di fine settembre. L’autunno cominciava
ad affacciarsi timidamente, intarsiando il cielo con le sue leggere plumbeità,
mentre il sole s’intiepidiva e la vegetazione cominciava a perdere il
caratteristico colore giallo bruciato dell’estate, per rinverdirsi prima
del freddo invernale. Era il periodo in cui intere famiglie di contadini si
recavano negli uliveti e iniziavano la lunga stagione dell’olio.
Quel giorno, in casa Dettori, Caterina guardò di sottecchi la sorella,
mentre nervosa si mordeva il labbro e con le mani si stropicciava il grembiule
bianco, ricamato con fitti disegni colorati di fiori e angeli, regalatogli
il giorno della cresima dalla zia di Cagliari, Donna Rachele.
“Davvero? E quando è successo?“ chiese la sorella, fissando
la ragazza.
“Due mesi fa!... Oh, Teresina!” Caterina, con le lacrime agli
occhi, si buttò sulla ragazza, ed entrambe caddero sul letto, ricoperto
con una grossa e morbida coperta di cotone dai grossi quadri e rombi colorati,
finemente lavorata a mano. “Che cosa debbo fare?”
“Dai… alzati! E cosa ne so io? Per me è tutto così
ridicolo!”
Caterina allora si alzò, si sistemò i folti capelli neri racchiusi
accuratamente in una cipolla e cercò di ricomporsi la lunga gonna di
cotone nero, ornata con semplici disegni geometrici che richiamavano curiosamente
quelli della coperta. “Oh, povera me!...” continuò a mugolare.
“Sono una donna finita! Ti prego, sorella, aiutami!”
Teresina, ancora seduta sul grande letto morbido, riempito di piume d’oca,
sbuffò, scuotendo la testa ricca di folti capelli rossicci che contornavano
un viso più allungato rispetto a quello di Caterina, ma non per questo
meno bello. “Ti ripeto che la tua è una fissazione!” insistette.
A quella considerazione, Caterina inorridì: il suo bel viso rotondo
si trasformò come per magia in una maschera smorfiosa e stizzita. “Una
fissazione? Fosse capitata a te!” sbraitò, indignata, mentre
camminava nervosa avanti e indietro.
In quell’istante, Donna Maria Spanu, con la sua mole imponente, passava
per il corridoio attiguo alla camera delle due figlie. Gioiosa e pimpante
come ogni mattina, bazzicava per la casa linda e pulita, assaporandone la
magnificenza e l’eleganza, grazie soprattutto agli arredamenti superbi
importati direttamente dal continente. E tuttavia, quando il suo viso leggermente
paffuto, sinonimo di un allegria e vitalità che solo Caterina aveva
ereditato, passò dinanzi alla porta della camera delle due figlie,
udendone l’animata conversazione, si contrasse incuriosito e dubbioso.
Donna Maria si fermò senza indugio, e dopo aver scrutato il corridoio,
fino alle strette scale di legno che portavano al pian terreno, per vedere
se Lucia Musinu fosse nei paraggi, si accostò alla soglia dell’uscio,
tendendo l’orecchio e giustificandosi che era suo dovere sapere che
cosa combinassero le sue due bambine in quel giorno non andate a scuola.
“Sono spacciata. Lo so!” diceva Caterina, piagnucolante, sempre
più disperata per il suo pesante problema. “Ormai sono passati
dei mesi da quando lui mi ha toccata… Ora non mi vuole più vedere!
Dice che se insisto, lo dirà a mammài! Mi sento così
male, sorella mia… Guarda il mio ventre… è così
gonfio che…”
All'udir quelle parole, il viso pienotto di Donna Maria attraversò
i colori dell’arcobaleno, per sbiancare tutto a un tratto e divenire
cereo come quello dei morti. Con gesto teatrale, la matrona si portò
la mano sul generoso petto e si allontanò barcollando e piroettando,
cercando di farlo in silenzio, giusto per non farsi scoprire. Tuttavia, non
ci riuscì: cadde sul vaso da notte ancora fuori dalla sua camera, rovesciandone
il giallo contenuto. Il clangore del pregevole recipiente in ferrosmalto bianco
destò le due sorelle che si affacciarono sul corridoio per capire cosa
fosse successo.
“Mammài! Cosa fai lì per terra?” chiese Teresina,
stupita, correndo verso la donna a pancia all’aria e tutta inzuppata.
“Come hai fatto a cadere?“
La donna slavata, tirata su a forza dalla figlia, si alzò e cercò
di sorridere nervosamente, evitando lo sguardo di entrambe. “Oh, piccole
mie…” tentò di abbozzare, scuotendo la mano. “Nulla,
nulla. Non ho visto… il vaso. Anzi…” e assumendo un aria
incattivita, gridò: “Lucia! Lucia! Dove ti sei cacciata? Vieni
immediatamente!”
La serva, una donna curva, già avanti con l’età, arrivò
quasi immediatamente, salendo le strette scale in legno in fondo al corridoio,
che scricchiolarono sinistramente al suo pesante passaggio. Quando vide la
chiazza sul pomposo tappeto, che ricopriva le assi del pavimento del secondo
piano della casa, e le grosse macchie sul vestito della padrona, intuendo
cosa fosse successo, alzò gli occhi al cielo: “Oh, Signore misericordioso!
Com’è accaduto?”
Donna Maria, infastidita dall’esclamazione melodrammatica della serva,
assunse un'aria sdegnosa. “Dimmelo tu! Perché quel vaso è
ancora qui?”
Lucia stava per rispondere, quando s'accorse che la donna, volgendo le spalle
alle figlie, le faceva dei gesti facciali del tutto incomprensibili. Allora
indugiò un attimo prima di parlare, finché, non capendo nulla
del modo strambo di comportarsi di lei, s'irritò e le disse in modo
sarcastico: “Oh sa meri, avete qualche moscerino nell’occhio che
vi disturba? Perché se è così, ve lo levo io!”
E fece per allungare la mano verso il viso della padrona, quando Donna Maria
l’allontanò con un gesto stizzito.
“Ma che dici!” sbraitò la matrona. “Mettiti a pulire
immediatamente questo scempio,” e rivolgendosi alle figlie, con aria
sommessa e gentile, disse loro: “E voi, piccoli fiori di mamma, tornate
pure ai vostri studi che qui ci pensiamo io e Lucia. Su, andate…”
Le due ragazze si guardarono dubbiose per l’insistenza, ma alzarono
le spalle e, come se niente fosse, tornarono in camera loro, rinchiudendosi
nuovamente nei problemi di Caterina, che non accennavano ad acquietarsi, nemmeno
dopo lo strambo episodio.
Quando la porta si serrò, il volto di Donna Maria assunse un'aria grave,
quasi disperata. Prese la serva per il bavero del colletto e la trascinò
nella propria camera da letto. “Oh, serva mia,” cominciò
a lamentarsi sommessa. “Oh, serva mia che disgrazia che è capitata
nella buona casa di Don Raffaele Dettori!”
La serva non capì: dal suo sguardo smarrito poteva intuirsi che pensasse
che la propria padrona fosse uscita di senno per la brutta caduta. E quando
Donna Maria l’ebbe lasciata, se ne allontanò: il puzzo, evidentemente,
era troppo forte anche per lei. “Ma che dite?” si limitò
a replicare. “Siete sicura che la caduta non v’abbia danneggiato?”
Donna Maria si sedette nello scranno e si mise le mani sul volto. “Oh,
Lucia, Lucia, la mia Caterina… La mia Caterina, che sventura che le
è capitata! Povera figlia mia… disonorata da un uomo!”
Lucia continuava a non capire. Quelle parole dette da Donna Maria erano davvero
strane. Cercò una sedia per sedersi, ma nella bella camera da letto
della padrona, le cui pareti erano ornate con una vivace carta da parati che
riproduceva allegri disegni vittoriani, l’unica sedia era occupata proprio
dalla matrona. Allora si rassegnò a rimanere in piedi; si poggiò
delicatamente sul comò, sopra il quale troneggiava un grande crocifisso,
riflesso nello specchio sovrastante. “Volete spiegarvi meglio, oh sa
meri?” chiese, infine.
Donna Maria annuì. Smise di singhiozzare, e asciugandosi le lacrime
che le avevano inondato il viso, raccontò quello che aveva udito. Quando
ebbe finito, pure Lucia Musino cominciò a disperarsi.
“Oh, povera Caterina,” gemette la vecchia serva, adagiata sulla
spalla di Donna Maria. “Chi sarà l’ignobile che ha potuto
fare questo alla figlia di Don Raffaele?”
“Dobbiamo scoprirlo, fedele Lucia,” disse Donna Maria, alzandosi
e cercando di assumere un aria dignitosa. “Dobbiamo capire chi è
che ha compiuto il misfatto, affinché ripari!”
Lucia, rossa in viso, annuì, incurante del puzzo sempre più
intenso che emanava dalle vesti di Donna Maria. “Si, si. Dobbiamo scoprire
il colpevole. E’ necessario che paghi caro questo abuso! Al mio paese,
Desulo, certe cose si riscattano con il sangue!”
“Ma che dici, sciagurata!” la rimproverò Donna Rachele,
spingendola via, per poi tornare a sedersi sulla sedia. “E poi, dimmi,
chi la sposa la mia Caterina in quello stato! Me lo spieghi?”