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Un po' di storia: le streghe nel passato

 

Le Streghe

Inquisizione spagnola secolo XVII

Nella documentazione sull'Inquisizione spagnola in Sardegna tra le persone condannate per fattucchieria e stregoneria quelle di Villacidro ricorrono con una certa frequenza (sette donne).

Ciò, tuttavia, non dimostra che a Villacidro fossero più diffuse le credenze e le pratiche di stregoneria che, in quel tempo, costituivano uno dei pilastri della mentalità magico-religiosa del popolo ma anche dei ceti colti.
In Sardegna, come nel resto d'Italia e d'Europa, il Seicento fu un secolo in cui la presenza del demonio e la sua azione nel mondo erano talmente radicate nell'ideologia dotta e nelle convinzioni popolari da far dire a molti studiosi che si sviluppò una vera e propria ossessione del diavolo (demonomania).

In un autodafé del 1/11/1674 furono penitenziate 5 donne di Villacidro accusate genericamente per "superstizioni":
tre di esse furono denunciate dai compaesani per aver, tra l'altro, ucciso dei bambini con le loro "arti demoniache".
Si trascrivono alcuni brani della relazione inquisitoriale su una di loro, conservando l'originale castigliano così come si trova nell'originale.


"Maria de Onis, vezina y natural de la villa de Villasidro Arzobispado de Caller y de setenta años de edad.
Fue denunciada de echizera y que con sus artes diabólicas avia muerto algunos niños y que se vanagloriava de ello en grave daño, escándalo y murmuración en toda aquella villa y comarca.
Examináronse diez y siete testigos todos los quales concluyeron en la mala fama y escándalo muy envejesido…
Dos dicen que, estando uno de ellos enfermo, le vino a ver la dicha Maria de Onis y que tomó una taza y en ella echó agua y un huevo y dinero, diciendo que aquello era el cáliz; y después de aver hechado dicha mistura le afirmó que su enfermedad eran hechizos…
Un testigo dice que, estando enfermo y con sospecha de que eran echizos, llamó a esta rea por la fama que tenía de que se le entendía de estas artes, y ella derritió el plomo en un cáliz y con agua bendita, agua de mar y taray se lo echó por todo el cuerpo y le dixo que no tuviesse cuydado y por ello le dio un escudo.
Otro de los testigos, muger y viuda, dando la razón de saber que esta rea es echizera, dixo que ella misma se le a dicho y que un día fue a pedirle prestadas unas alforjas, viviendo el marido de la testigo, y porqué se las negarono se salió muy enojada y amenasándolos, haciendo cruzes en la frente, diciendo que se lo pagarían muy bien . Y a cabo de quatro días un niño que tenían le hallaron, la testigo y su marido, muerto en la cama sin aver tenido ni padecido ningún achaque. Y corrió voz que la dicha Maria Onis lo havía muerto con sus bruxerías…"

Contributo di Salvatore Loi

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Relazione alla Santa Sede sullo stato dell'Archidiocesi da parte dell'arcivescovo di Cagliari mons. FALLETTI (1744)

"Conscias praterea reddo Eminentias Vestras quod, ad extirpandum in loco Villa Sidro meae Dioecesis abusum superstitionum et sortilegiorum praticari identidem consueverunt, praesertim ab aliquibus mulieribus infimae plebis artem sagarum lucri causa secreto profitentibus, proprium duxi meae pastoralis sollicitudinis curare erectionem Congregationis Sancti Philippi Nerii in dicto loco de Villa Sidro, quae Congregatio quamprimum, Deo dante, erigetur a nonnullis sacerdotibus secularibus huius civitatis saluti animarum deditis et ad predicandum, iuxta institutum dictae Congregationis idoneis, dictoque populo valde acceptis. Hinc spero eventurum, ut dictus abusus superstitionum (quem mei antecessores cum toto rigore iustitiae abolere non valuerunt, nec ego ipse)paulatim eradicetur per dictos sacros operarios et eorum socios..."

TRADUZIONE:
"Informo inoltre le Vostre Eminenze che, per estirpare nella località di Villacidro della mia diocesi l'abuso delle superstizioni e dei sortilegi che furono abitualmente praticati in continuazione soprattutto da parte di donne degli strati più bassi della popolazione che esercitavano in segreto l'arte delle streghe a fine di lucro, ho ritenuto proprio della mia pastorale sollecitudine curare la fondazione della Congregazione di S. Filippo Neri nella suddetta località di Villacidro. Tale Congregazione verrà fondata quanto prima, con l'aiuto di Dio, da alcuni sacerdoti secolari di questa città dediti alla salute delle anime e alla predicazione, secondo le regole di questo istituto, e molto graditi al popolo. Da ciò spero che il predetto abuso delle superstizioni (che i miei predecessori non riuscirono a togliere, nonostante tutto il rigore della giustizia, e neppure io) venga a poco a poco sradicato dai detti operai (sacerdoti) e dai loro compagni...".

Contributo di Salvatore Loi

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G. Spano in
 "Postille alla storia degli Ebrei in Sardegna", Tip. Arciv., 1864, pp. 507-508
descrive la situazione di Villacidro a metà del secolo XVIII

… “stante in questo villaggio ab antiquo è un ridotto di superstizioni solite praticarsi per lo più da donnicciuole ad istanza di malviventi, naturali e forestieri per procurar la morte o la sanità di altri o l’effettuazione di qualche matrimonio, o la vittoria di liti o l’invenzione di tesori e simili empietà, avanzando le dette donne che fanno la professione di streghe, dandosi al Diavolo per guadagnar danari, dal terzo o dal quarto, sino ad invocar talvolta espressamente per questo effetto i Demonj”.

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G. Siotto Pintor nella 
"Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848", Forni, To, 1877,
riporta:

“Udii a dire... essere stata in Cagliari nel finire del secolo passato [1700] una stregala quale fu dall'inquisitore dannata a essere esposta in una delle piazze della città in abiti da scherno, la testa circondata da penne di struzzo e d'altri uccelli siffatti. Chiamavasi Maria Saju, nativa di Villacidro.”

www.paesedellestreghe.it

 

V. Angius nel
G. Casalis - V. Angius nel Dizionario geografico - Storico - Statistico - Commerciale degli Stati di S. M. Re di Sardegna, nel 1842 ca, alla voce "Cidro", nel paragrafo
“Carattere, pregiudizi e costumanze particolari" 
afferma:

...
"E' ancora ne' più una forte persuasione della esistenza delle streghe, e credenza nella virtù delle loro arti malefiche. Quindi certe femminette sono rispettate con un vero timore; e mentre con questo errore e l'altro che sieno i preti terribili nelle loro maledizioni, avviene che delle credute maliarde temansi assai più che di questi. A render pertanto vane le operazioni secrete delle cotali diavolesse, le madri timorose invocano contro quelle la protezione di S. Sisinnio, cui onorano quanto sanno, mentre il credono nemicissimo di quelle maligne, e tengono come una strega trasformata il serpente che il Santo è rappresentato conculcare.”

Edicola legnea con S. Sisinnio

Edicola lignea contenente il simulacro di S. Sisinnio con ex voto. 

 

Salvatore Manno nella monografia 
"Villacidro", 1893, 
scrive:

“Villacidro era assai rinomato per le sue streghe ed i suoi abitanti venivan segnati a dito, come fattucchieri di prim’ordine.

Se vuolsi la fama non tradiva affatto l’indole di questi popolani. Difatti fuvvi un tempo in cui essi aveano ferma persuasione dell’esistenza delle streghe; o la credenza nella virtù delle loro arti malefiche era grandemente radicata nell’animo del popolino semplice ed ignorante.

Certe femminette, abbronzate dal sole e bruttissime di volto, traevano gran profitto dalla superstiziosità dei loro conterranei, atteggiandosi a fattucchiere e vendendo filtri ed amuleti. Quelle magliarde, senza tripode e senza cuore, erano assai rispettate, anzi temute, e le loro insulse operazioni procuravan loro di che vivere a ufo.

 Le madri ignoranti e paurose delle segrete operazioni delle streghe credevano che quelle potevan rapire i neonati, specie la notte susseguente al loro battesimo, per poi succhiarne il sangue come vampiri.

 Unico mezzo per scongiurare siffatto pericolo s’era quello di mettere sotto il letto un trepiè rovesciato!

Una buona donnicciuola del mio vicinato mentre un dì discorrevasi di questo grossolano pregiudizio, affermava che il primo frutto del suo amore, pochi giorni dopo che fu battezzato, sel trovò una notte nello svegliarsi intirizzito e dissanguato dalla strega.

Ebbi un bel sfiatarmi per farle intendere che la causa della morte della sua creatura era stata tutt’altra che quella. Essa avea più fede in ciò, che nei dieci comandamenti.

Perché i neonati venissero preservati dall’influenza delle magliarde, le matri invocavan la protezione di S. Sisinnio. Credevano esse che questi fosse nemico acerrimo di quelle e, a confermarle in ciò, contribuivan molto quelle immagini dozzinali, in cui questo santo è raffigurato nell’atto che calpesta una strega, dall’aspetto orrendo, per punirla del ratto d’un bambino che essa tiene ancora in braccio.

 Mette conto ricordare qua alcune delle stramberie, cui s’abbandona anche oggi dì il popolino cidrese. Ciò, se non altro, varrà a ritemprare lo spirito dalla noia provata nel leggere le pagine antecedenti.

La notte di Natale molte famiglie mettono al fuoco il più grosso ceppo che trovansi a possedere, e lo lascian bruciare tutta la notte, dopo averne riservato un pezzo per la notte di Capo d’anno. Fanno ciò nella credenza che la Vergine, col bambino Gesù vi si rechi a riscaldarsi e apporti così la benedizione e fortuna alla casa.

Strane davvero sono le credenze che suscita nella mente delle donnicciuole la notte di S. Giovanni.

Le ragazze, abbandonate dal loro fidanzato, ricorrono al seguente mezzo, per sapere se nel cuore di questi esista ancora l’amorosa fiamma e se quindi ne sia possibile il riavvicinamento.

Al tocco della mezzanotte, la sposa dolente, in compagnia dei suoi pensieri e solo ricoperta da una gabbanella, recasi alla porta della parrocchia e,  dopo aver fatto una breve ma fervida preghiera, percorre la strada per cui passa ogni anno la  processione religiosa, che ha luogo per la festa del Corpus Domini.

Durante quel ridicolo pellegrinaggio, origlia a tutte le porte, che danno su quella via, per vedere se le vien fatto di udire qualche discorso sul suo amore. Se apprende delle frasi a lei favorevoli, lo sposo dovrà presto ritornare fra le sue braccia; se invece l’opinione che vien espressa in quei discorsi familiari è a lei svantaggiosa, il suo amore è perduto.

 ***

Le ragazze, che fanno all’amore, volendo accertarsi se l’idolo dei loro pensieri è fermo nei suoi propositi erotici, pigliano, sempre in quella notte s’intende, il fiore che produce il cardo da lanaiuoli o labbro di Venere, lo abbrustoliscono ben bene alla fiamma della lucerna e poi lo depongono sul tetto. Se l’indomani, per tempo, recandosi, col cuore affannoso per l’esito dell’oracolo, a riprenderlo, lo trovan di bel nuovo vivo e fresco, gli è indizio sicuro che l’oggetto dei loro sospiri si manterrà fedele, ma se quel povero fiore non risorge a nuova vita, vuol dire che il loro amante è assai volubile e che giammai potrà congiungersi a loro in dolce nodo.

  ***

Le fanciulle vaghe d’aver il petto ricolmo e voluttuoso, a mezzo il giro di quella notte misteriosa, piglian tre fave e le gettan nel pubblico fonte, biascicando un’insulsa invocazione. Così col gonfiarsi delle fave per l’umidità, il loro seno diverrà pieno e tondeggiante e sarà il sospiro tormentoso di tutti i giovani del paese.

  ***

Contro l’occhio mordente, o mal d’occhio, o affasciamento è assai miracolosa l’acqua di patena. Così chiamano un po’ d’acqua, in cui sia stata immersa, con l’arte richiesta, una medaglia di Sant’Elena.

A questa medaglia il volgo attribuisce una virtù meravigliosa.

Di quest’acqua portentosa se ne fa bere al bambino affasciato parecchie volte e il male sparirà come per incanto.

  ***

Ci sono poi delle persone che sanno de is brebus, ossia orazioni miracolose contro molti mali.

Questi maligni superstiziosi credono di poter coi loro brebus rendere inoffensivo e muto anche il più vigile cane da guardia; preservare i seminati dal vandalismo dei passeri e da altri uccelli; tener lontani, dall’uomo che dorme in aperta campagna, i rettili velenosi; e commettere un mondo di altre insulsaggini per gabbare i credenzoni che in simili casi pagan le spese.

I cacciatori non vanno neppur essi immuni da ridicole superstizioni; anzi la fortuna del loro archibugio fondasi affatto su queste. Lorquando essi recansai alla montagna a turbar la pace dei selvaggi quando liberi abitatori, badano anzitutto di uscir dal popolato per tempismo e divisi, fissando il punto di ritorno. Guai se li vede qualche occhio affascinante tutti uniti! Sarebbe fatica sciupata.

 Se per caso poi nel tragitto qualche curioso contasse i loro cani, non ci sarebbe più nulla da sperare: la caccia andrebbe fallita. Meno male però che questo malanno, quando i cacciatori se n’avvedono, ponno scongiurarlo. Diavoli! La iettatura, prodotta da quell’occhio malauguroso, essi la distruggono, voltando con destrezza, all’atto che avviene la guardata, un sasso, e tenendovi sopra il piede finchè dileguasi la persona importuna.

Se a taluno poi facesse invidia la fortuna che altri avesse nel far caccia non ha che a far così. Si rechi, assieme al distinto seguace di Sant’Uberto, nel bosco e, alla prima selvaggina, che cadrà colpita dall’infallibile di lui schioppo, spunti leggermente la coda. Se riesce a far ciò senza che i presenti se n’avvedano, stia pur certo che di tempo ne passerà parecchio, prima che l’invidiato cacciatore possa bearsi nella valentia di sparare.

Al contrario, se taluno, che pur sentendosi di avere il polso fermo e l’occhio perspicace nel maneggiar il fucile, sciupa inutilmente tempo e fatica nelle partite di caccia, ecco come può acquistarsi le grazie della dea silvana. Il primo giorno che ritorna ai diletti della caccia segni sulla prima palla, che mette nella canna del suo fucile, una croce; si segni anch’egli da buon cristiano e tiri, anche ad occhi chiusi, alla prima selvaggina che ha la sventura di passare nella sua posta.

La povera bestia cadrà infallibilmente fulminata.

  ***

I veterinari poi sono esseri affatto inutili, se si pone mente al modo di curare i bestiami da molte malattie.

Si tratta di cose prodigiose, che alla scienza sfuggono, secondo i nostri popolani.

Basterà citare uno dei tanti metodi di cure miracolose per provare quanto essi ne sballino delle grosse. Ecco.

Qua a Villacidro evvi un chiuso, ove da lontano tempo fu seppellita la carogna d’un cavallo, in modo che i zoccoli stessero all’insù. Ebbene se un cavallo o un bue è preso da qualche malore, si fa girare torno torno a quella prodigiosa fossa, il cui sito è ben delineato da un’aia, parecchie volte e la bestia guarirà subito.

  ***

Se avete un nemico del quale volete vendicarvi, ricorrete a certe donnicciuole del mio paese: per poche monete esse vi prestano l’opera loro e l’oggetto del vostro odio non potrà durarla a lungo.

Un giorno tratto a curiosità dal viso sudicio, scarno, dall’espressione acerba, proprio da vera megera, di una decrepita pitocca, che passava dinanzi alla mia abitazione, la feci entrare; e, dopo averle dato un buon sorso di vino per scioglierle lo scilinguagnolo, l’interrogai sul conto delle streghe.

Di streghe, mio buon giovine, così essa incominciò, buttandosi a sedere sul pavimento, non se ne trovan che pochissime, perché San Sisinnio ha fatto loro una guerra spietata, e quelle poche che ancora esistono, non si fidano tanto facilmente, perché temono l’ira dei Santi e dei preti.

 Nei tempi andati però qua ce n’era un gran numero e bisognava comportarsi bene con loro e favorirle; chè altrimenti si rimaneva vittime delle loro arti malefiche.

            Misero colui che è guardato di mal occhio dalle streghe! Continuava quella cocciuta superstiziosa, cui il vino, che di quando in quando le facea tracannare, risvegliava la memoria assopita. Quando il fardello degli anni, che ora mi fan curvare la schiena e mi rendono amara l’esistenza, era ancor lontano dalla mia mente, quando, fanciulla, andavo a lavare i panni nel fiume o nella campagna a falcia dell’erba o a spigolare, avvenne un fatto pietoso per opera di una vecchia strega, che morì l’anno stesso, in cui io sposai il mio buon Bartolomeo, che m’ha preceduta. Misera me, nel passo estremo.

            E qui si mise a piangere. Il mestoso ricordo avea spremuto da quel cuore inaridito alcune lagrime.

            Ecco di che trattavasi, continuò di li a poco. Antonio Vai era un contadino piuttosto benestante. Toccava già i quarant’anni ed era ancor celibe, né, a quel che diceasi, avea idea di matrimoniarsi. Vivea con alquanti suoi servi ed una bella servetta della quale s’innamorò. La ragazza era buona, onesta; ma vinta dalle lusinghiere promesse dal suo erotico padrone, cedette alle di lui voglie e un giorno si accorse d’esser diventata madre.

Invano allora ricordò al suo amante la fede giurata, la promessa fatale: Antonio per tutta risposta la mise alla porta, avvertendola di non por più piede nella sua casa.

Pianse la giovinetta derelitta; imprecò sul capo del sul capo del suo traditore la maledizione di Dio, il disprezzo dei sui simili; e poi fini per l’adattarsi al peso della sua croce.

            La madre della ragazza però non la fece finita. Essa no si dette pace finché non ebbe compiuta la sua vendetta. Ricorse perciò ad una sua comare che era tenuta per una magliarda di prima forza; e, mercè le segrete operazioni di questa, nel giro di pochi giorni Antonio Vai fu ridotto in uno stato miserando.

Atroci dolori alle ossa lo torturavano e il suo corpo fu tutto piagato da ulcere schifose.

La ragazza fu così vendicata e quell’infelice fu ridotto a soffrire qua giù le pene dell’inferno!

Il destino però ebbe pietà di lui ed ecco che un caso insperato lo trasse da quella straziante condizione.

Un giorno, mentre un suo bracciante zappava profondamente presso la siepe dell’orto, attiguo alla casa, dissotterrò un pezzo di sughero, in parte marcito, ritagliato in modo da presentare i contorni del corpo umano, e tutto trapassato di spilli. Lo prese in mano, lo guardò e, tratto dalla curiosità, corse a mostrarlo alla vecchia domestica. Costei, che si piccava di maglia, riconobbe tosto in quello strano oggetto su malefattu , ossia la fattucchiera che pesava sul suo padrone e, senza por tempo in mezzo, si diede a strappare le spille che vi erano infisse; scongiurando il amale con un’orazione tutta propria. Man mano che queste cadevano -inaudito prodigio!-  scemavano i dolori del povero ammalato e quando questa sapiente operazione fu compiuta, ed il sughero, gettato nel fuoco, fu ridotto in cenere, Antonio si sentì grandemente sollevato dagli spasimi strazianti che per lunga pezza aveanlo tormentato. In capo a pochi giorni si ricostruì del tutto. Inutile descrivere l’allegria, la gioia immensa di quella famiglia, dopo il miracolo della guarigione.

Antonio Vai, scampato a tanto infortunio, appena potè uscire di casa, lo fece subito per recarsi di filato dal parroco, allo scopo di far eseguire le pubblicazioni del suo matrimonio con la vecchia fantesca che l’aveva miracolosamente salvato; senza punto curarsi che la brina dell’età avea da parecchio incanutita quella testa superstiziosa della sua fidanzata, e il tempo le avea portato via i trentadue denti che un giorno sfidavano in resistenza quelli del cane.

Le ultime parole di quella donna dal viso sudicio, scarno e dall’espressione acerba, mi fecero ridere proprio di buona voglia. Le diedi una moneta e mentre puntava una mano sul pavimento per alzarsi, essa, con voce che esprimeva il suo fermo convincimento, soggiungeva: Creda, mio buon giovine, così vorrei avere la pace eterna dell’anima mia....."

 

S. Sisinnio - bassorilievo

Altare della Parrocchia S. Barbara, 
bassorilievo con S. Sisinnio martire che tiene imprigionato il demone del male 

 

Il medico Antonio Piras Pinna nel prezioso volume 
"Resoconto sanitario del comune di Villacidro dal 1886 al 1892"
conferma quanto scrive 
Salvatore Manno e denuncia indignato:

“Capita che un povero credenzone venga improvvisamente colpito da una reumatalgia per essersi esposto all’azione brusca del freddo o dell’umidità, ed eccovi la così detta maliarda che si adopera onde persuaderlo che quella malattia non è del dominio dell’arte medica, ma è l’effetto della malefica influenza di una strega.

Quindi non bisogna ricorrere al medico, se vuolsi la propria guarigione.

Una madre è colpita da una grave metrorragia che la mette in serio pericolo di vita. Vi pare che debbasi chiamare il medico? No, davvero. Quest’altra malattia non è neppure del dominio dell’arte medica, anzi non deve essere palesata al medico per delicatezza e per pudore! Bisogna adunque prontamente rivolgersi alla virtù dell’amuleto che possiede la comare tale, all’abitino sacro posseduto da tale altra comare, il quale ha la potenza di reprimer qualunque metrorragia.

Vede un’altra povera madre giunto agli estremi di vita il suo caro bambino, o sotto l’accesso di una febbre perniciosa, o per grave accesso di eclampsia dietro una difficile dentizione, o per perturbamento indotto da verminazione ecc.? Deve forse quella madre consultare per il primo il medico sullo stato grave del figlio? Ma no, deve chiamare una comare, una fattucchiera vicina o lontana, per fargli gli esorcismi de s’ogu liau!

Capita un disgraziato epiletico che, come quasi sempre avviene, non possa trovare un rimedio al pessimo morbo che l’opprime? Sia ha almeno ora a chiamare il medico? Ma no, non è il sanitario che, coi lumi della scienza e dell’arte, possa lenire le sofferenze, ritardarne e mitigarne gli accessi, bensì è il compare che provvederà un pezzo di osso di cadavere umano, un pezzo di cuore di uomo morto a malefizio… Tutti questi rimedi a chiunque rifletta con senno farebbero ribrezzo, ma uno di questi rimedi appunto, verrà somministrato all’infelice ammalato in apposito manicheretto! Chi oserà dubitare che il grave ostinato morbo non sia per cessare?!

Quali le conseguenze di sì gravi pregiudizi, non combattuti tenacemente da chi ne ha l’obbligo morale? La reumatalgia, la metrorragia, la infermità che assalse quella tenera creatura, spesso unica, la epilessia e così via dicendo, rinnovandosi gli attacchi, porteranno alla tomba l’uomo robusto, il caro figliuoletto, la madre onesta ma troppo credula, non ostante gli amuleti, i pezzi d’osso o di cuore umano, e l’alto sapere della stupida strega!”

S. Sisinnio e  il maligno

S. Sisinnio tiene imprigionato su cogu, il maligno, 
per  proteggere i bambini.

 

Felice Cherchi Paba nel volumetto 
"Villacidro", 1969 (Quaderni Storici e Turistici di Sardegna |  10)
asserisce:

“San Sisinnio, viene dal popolo villacidrese invocato contro le streghe, tanto che non appena una donna partoriva, il padre del neonato metteva in ogni porta un'immaginetta del Santo, o un foglio recante il suo nome, a modo che la strega non potesse varcare la soglia di quelle porte e così salvare la nuova anima del loro malefico influsso. E' questo un rituale che, in termine pagano, usavano praticare i fenici e i caldei.”

www.paesedellestreghe.it

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